Ma di’ un po’: come si può star quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere gli altri che tu sei come ti vede lui, e a fissarti nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di te e ad impedire che gli altri ti vedano e ti giudichino altrimenti?
(Luigi Pirandello)
MUSEI E SCUOLE COME “SPAZI SICURI” PER IL DIALOGO INTERCULTURALE
Questa storia inizia con l’incontro fortuito, e anche fortunato, tra gli insegnanti del Centro di Accoglienza Straordinario (CAS) Il Gelsomino e Stefania Vannini, l’allora responsabile dell’ufficio Public Engagement del MAXXI- museo delle arti del XXI secolo . Stefania ci ha invitato a tornare al museo e si è offerta di accompagnarci in una visita guidata.
Così ci ritroviamo a passeggiare al suo interno, un po’ abbagliati dalle opere d’arte e dalla sua architettura luminosa. Il nostro sguardo viene subito attratto da “The Emancipation Approximation” di Kara Walker, con i suoi eleganti cigni bianchi sormontati da teste di donne africane. Da lontano sembrano immagini decorative e innocue, esteticamente riuscite, poi mettiamo a fuoco i particolari più macabri. Quelle stesse teste sono state mozzate da una ragazza dalla pelle chiara, l’aria altezzosa e l’espressione annoiata.
Stefania ci ha raccontato chi è questa artista afroamericana che affronta il tema della schiavitù negli Stati Uniti, lavorando sul ricordo della violenza e sulla violenza che questo ricordo continua a generare. Grazie all’osservazione mediata da un’esperta, ascoltiamo con attenzione ciò che l’opera vuole comunicare e accogliamo l’invito a confrontarci con essa, filtrando attraverso l’immagine la nostra esperienza e le nostre emozioni, per riceverne indietro una versione più concreta, comunicabile e condivisibile.
L’opera di Kara Walker evoca con immagini forti uno dei periodi più bui della storia moderna: lo schiavismo messo a valore in un’economia capitalista ed estrattivista di scala. Guardando i suoi lavori, subito affiorano immagini di uomini e donne incatenate e costrette a lasciare la propria terra per lavorare nelle piantagioni americane. Certo, la “tratta degli schiavi” è un capitolo chiuso della storia mondiale, ma si può dire lo stesso delle sue conseguenze in termini di “categorie culturali” e di “implicazioni sociali”? […]
Partendo da queste riflessioni, decidiamo di lavorare in classe su questo tema e di partecipare con i nostri studenti, il 27 marzo 2018, sempre presso il MAXXI, a uno specifico evento di Narrazione “da Museo a Museo”. Questa attività si inserisce all’interno di un progetto più ampio, nato nel 2014, che mira a promuovere la partecipazione attiva dei soggetti considerati più fragili o svantaggiati, all’interno degli spazi protetti dei musei. La metodologia operativa consiste nell’assegnare un’opera del patrimonio artistico-culturale al gruppo dei partecipanti, i quali la “rielaborano” e la raccontano di fronte ad un pubblico, collegandola a esperienze di vita e interpretazioni personali. Una tecnica pedagogica che favorisce il dialogo e l’incontro tra comunità e culture diverse, supportata anche dall’UNESCO (2003), uno stimolo per parlare d’arte in prima persona, avvalendosi di voci non-esperte, evocazioni inusuali e vicissitudini soggettive.
ETNOGRAFIA DI UNA LEZIONE DI ITALIANO
La complessità di questo fenomeno è solo una delle difficoltà che abbiamo dovuto fronteggiare una volta deciso di confrontarci in classe su questi temi. La nostra è una scuola d’italiano attiva all’interno di un centro di accoglienza per richiedenti asilo: alla difficoltà linguistica si aggiunge l’eterogeneità dei paesi di provenienza degli studenti e la loro esperienza personale marcata (nel migliore dei casi) dall’attesa impaziente dei documenti, dalla solitudine per la lontananza da casa, dall’estraneità e dal rifiuto percepito nel luogo di arrivo, spesso gli studenti stessi sono stati vittime di episodi di razzismo in Italia o durante il viaggio. Se per me il razzismo è un fatto politico e sociale, per loro è una questione tutta personale; parlarne apre al dolore, alla rabbia e alla frustrazione.
Perché allora sforzarsi, perché parlarne non solo in classe, ma di fronte a un gruppo di estranei all’interno di un Museo? Molti ragazzi non riconoscevano l’utilità di un confronto neppure tra noi e sostenevano che la scuola è fatta per imparare la lingua e le sue regole, non per discutere di questi problemi; altri erano addirittura contrari ad eventi pubblici di sensibilizzazione sui temi del razzismo e delle migrazioni. Allora abbiamo cominciato noi insegnanti, sostenuti da un gruppetto di studenti, a mostrare – non certo a spiegare – perché secondo noi questa attività poteva avere un valore: « Aiutate noi italiani a capire le vostre esperienze, non tutti hanno la fortuna di parlare con tanti ragazzi migranti come ce l’abbiamo noi».
Così piano piano alcuni, sempre più studenti, si sono uniti al gruppo dei “favorevoli”. « Gli italiani e gli africani devono imparare a conoscersi», « l’incontro crea ponti e elimina gli stereotipi», «sono intervenuto ad un incontro di Amnesty e ho conosciuto tante persone simpatiche», possiamo dire cose belle sui nostri paesi», «così mettiamo un mattone per costruire una casa di amicizia che ci protegga dal razzismo». Nel corso di un piccolo viaggio durato un paio di lezioni, abbiamo cominciato a parlare e poi a scrivere di razzismo, concentrandoci in particolare sullo sguardo altrui, sull’accoglienza o dis-accoglienza percepita.
Alcuni ragazzi hanno cercato di definire il razzismo nei suoi aspetti più freddi, giuridici o sociologici. Tanti hanno parlato del razzismo in Italia: la gente che si alza sul tram, le signore che stringono a sé la borsetta, le occhiatacce e i commenti razzisti per la strada, la paura di essere vittima di uno di quegli episodi di violenza di cui parlano spesso i telegiornali. Chi ha additato l’odio, chi la paura. Chi crede che i paesi africani siano molto più accoglienti dei nostri nonostante la maggiore povertà; chi invece è preoccupato per una sorta di “effetto boomerang” per cui le vittime di razzismo sviluppano un atteggiamento aggressivo e intollerante a loro volta, allontanando sempre più i popoli e le persone. Qualcuno ha parlato del passato coloniale. Altri della diffusione del razzismo anche fuori dall’Italia e dall’Europa. C’è chi ha raccontato esperienze personali, chi ha scelto di non farlo. La metafora della casa è rimasta come linea guida: abbiamo immaginato di costruire una casa contro il razzismo, piano piano, con le nostre mani e le nostre voci, un mattone alla volta.
L’INCONTRO
Questo è il percorso personale, collettivo e didattico che mi ha portato al MAXXI, il 27 marzo 2018, insieme a un gruppo di studenti richiedenti asilo. Il gruppo di lavoro di Art Clicks, di cui faccio parte, ci ha accolto con calore e rispetto; noi eravamo emozionati e un po’ titubanti. Accanto avevamo anche altri ragazzi migranti, minori non accompagnati presi in carico da Civico Zero e dal Centro Astalli , che avevano svolto un lavoro simile al nostro durante le loro attività.
La tensione si è affievolita di fronte all’opera di Kara Walker, in cerchio lo sguardo si muoveva veloce tra la galleria del museo, i narratori – non solo migranti ma anche storici dell’arte, educatori, artisti – e tutti gli altri partecipanti. Abbiamo parlato in tanti, italiani e stranieri, ciascuno ha raccontato qualcosa dell’opera d’arte dal proprio punto di vista; ragazzi in visita scolastica si fermavano ad ascoltare. Mi è sembrato un momento di grande libertà comunicativa ritagliato all’interno della sfera pubblica, in cui la differenza di linguaggi e di mezzi espressivi era non solo accettata, ma valorizzata e trasformata in uno strumento per “accorciare le distanze”.
Non so dire con certezza che cosa abbiano imparato o quali conclusioni abbiano tratto da questa esperienza gli altri partecipanti. La mia sensazione è che abbia alimentato la curiosità e – almeno momentaneamente – la speranza. Tutti quelli con cui ho parlato hanno affermato di essere soddisfatti dell’esperienza vissuta. « Scambiare idee» , «trovare solidarietà e accoglienza parlando con altre persone» , «l’importanza della storia da ricordare per noi stessi e per le generazioni future» , «sapere che ci sono persone pronte ad ascoltare» , sono alcune delle considerazioni fatte dagli studenti.
Personalmente, credo che le istituzioni scolastiche e culturali siano strumenti privilegiati di trasmissione dei valori e della cultura dominante, e insieme luoghi centrali per rinegoziare e mettere in discussione quegli stessi saperi. Le scuole e musei possono veramente fare tanto per favorire un tipo di incontro molto peculiare, orientato all’ascolto e alla fiducia: veri e propri spazi di libertà comunicativa e conoscitiva che gli esperti di studi interculturali amano chiamare “zone di contatto”, riprendendo un’espressione coniata dall’antropologo statunitense James Clifford (1997). Sono perciò convinta che l’utilizzo di linguaggi non convenzionali, la natura sociale di questi spazi, il clima di confidenza e di prossimità che si crea a scuola o davanti a un’opera d’arte siano risorse preziose e necessarie. Da custodire, potenziare e difendere con tenacia e intelligenza.
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di Francesca Messineo – Antropologa di formazione e specializzata in studi sociali sulla globalizzazione (Master in Global Studies Programme). Impegnata fin da giovanissima nella lotta al razzismo con il Comitato Abba Vive, nato in ricordo di un ragazzo italiano originario del Burkina Faso ucciso nel 2008 a Milano. Ho vissuto per qualche anno in Cile partecipando a diversi progetti per contrastare le disuguaglianze socio-economiche nella capitale: formazione professionale per donne indigene (AlpiAndes), laboratori per aiutare i bambini dei quartieri più poveri a sviluppare le proprie potenzialità socio-cognitive (Voces de la Calle), attività di ricerca sulla povertà urbana (TECHO-Chile). Tornata in Italia, mi sono appassionata alla didattica interculturale e all’insegnamento linguistico. Adesso vivo a Roma e lavoro in un Centro di Accoglienza Straordinaria per richiedenti asilo, dove insegno italiano e mi occupo di percorsi formativi per l’inclusione sociale dei migranti.